Si stanno delineando due scenari:
. Una risposta iraniana su larga scala che porterebbe a una dichiarazione di guerra da parte di Israele. In questo caso, l'intervento degli Stati Uniti nel conflitto sarebbe inevitabile, con il rischio di una conflagrazione regionale che potrebbe far precipitare il mondo in un'escalation senza precedenti. La principale conseguenza sarebbe l'interruzione dei flussi di petrolio, con il rischio potenziale di chiusura dello Stretto di Hormuz e un'impennata incontrollata dei prezzi del greggio, che porterebbe a una forte correzione degli asset di rischio, dato il rischio di una recessione economica globale;
. Una risposta più misurata da parte di Teheran, simile alle precedenti fasi di tensione tra i due paesi negli ultimi due anni.
Ci sono ancora diversi motivi per sperare che aprendere forma sia questo secondo scenario e che il conflitto possa essere contenuto. Da un lato, gli Stati Uniti hanno dichiarato di essere stati informati dell'attacco israeliano ma di non averlo appoggiato. Trump ha anche specificato di voler ancora riprendere i colloqui con Teheran e potrebbe quindi esercitare pressioni diplomatiche su entrambe le parti per incoraggiare la moderazione. D'altra parte, il regime iraniano si trova in una posizione particolarmente delicata, poiché la sua economia è soffocata dalle sanzioni internazionali e il malcontento della popolazione interna continua a crescere, spiegando in gran parte il suo ritorno al tavolo dei negoziati con gli Stati Uniti negli ultimi mesi. Anche le sue capacità militari sembrano essersi indebolite, come dimostrano l'inefficacia delle sue risposte durante le precedenti fasi di tensione e l'indebolimento di diversi gruppi militari che sosteneva nella regione. Infine, le reazioni misurate delle altre potenze regionali suggeriscono che l'episodio attuale non è per il momento percepito come un cambiamento del paradigma di sicurezza e fanno quindi sperare che le tensioni non si estendano all'intero Medio Oriente.
Per quanto riguarda le implicazioni finanziarie e l'asset allocation, tutti questi fattori incoraggiano gli investitori a essere cautamente ottimisti sull'esito geopolitico. Sebbene i prezzi del greggio abbiano registrato un forte aumento in primissima battuta (+7% a $74/b), dopo una reazione iniziale più pronunciata hanno iniziato a flettere. L'altissimo livello di incertezza richiederà il mantenimento di un premio per il rischio geopolitico nelle prossime settimane, ma un'impennata del Brent a livelli che potrebbero indebolire l'economia globale o innescare una nuova ondata di inflazione potrebbe essere evitata se l'OPEC, e in particolare l'Arabia Saudita, accettassero di aumentare la produzione. Dato il peso relativamente contenuto dell'Iran nell'economia globale, il rischio di un'impennata dei prezzi del petrolio è il principale canale di trasmissione dello shock geopolitico ai mercati finanziari, il che spiega il basso impatto sui mercati azionari nelle primissime fasi.
Sebbene l'oro abbia sin da subito svolto bene il suo ruolo di bene rifugio (+1,5% a 3430 dollari/oncia), va notato che i rendimenti sovrani non offrono lo stesso appeal, segno che i timori inflazionistici stanno prevalendo agli occhi degli investitori, nella misura in cui questo rischio si aggiunge a quello già prevalente dei dazi. Infine, l'apprezzamento del dollaro rimane particolarmente modesto, testimoniando ancora una volta la forza del trend ribassista di fondo del biglietto verde. In questo contesto di grande incertezza, manteniamo un approccio piuttosto cauto nei nostri investimenti azionari, in particolare in quelli statunitensi, dove i prezzi delle azioni sono cresciuti più rapidamente della recente crescita degli utili. Intendiamo inoltre adottare una politica di copertura attiva del rischio valutario sul dollaro, come stiamo facendo da diversi mesi.